Un tempo la gente abitava felice nel centro storico e quasi ogni sera in ogni casa ci si riuniva per discutere di varie problematiche e fare qualche inevitabile pettegolezzo o qualche bella litigata o alzare un po’ il gomito.

Tutti sapevano i fatti di tutti anche perché era possibile origliare ciò che si diceva nella casa del vicino.

Allora nelle case non c’era l’acqua corrente in quanto non esisteva nemmeno la rete idrica.

L’acqua fresca si andava a prendere alle varie fontanelle pubbliche, al Canalicchio, u canalicch(io), alla fontana della Madonna, a funtana ra Maronna, o al Pantano, u Pantan(o).

Le donne andavano a prendere l’acqua con il bottiglione di vetro o col barile, u varlir(o), che poi abilmente e con perfetto senso dell’equilibrio portavano sulla testa con l’interposizione di un panno, a spara, generalmente un’asciugamano arrotolata.

Ricordo queste donne che spesso, mentre portavano sulla testa il barile, u varlir(o), o addirittura a naca, una culletta col bambino annesso, contemporaneamente facevano la calza, a cauzetta, con più ferri.

Le ragazze andavano con piacere a prendere l’acqua, anche perché a volte era l’unica occasione per uscire di casa e poter così incrociare, magari solo con lo sguardo, qualche bel giovanotto, forse già oggetto dei loro sogni segreti.

A volte le furbe ragazze, a casa, di nascosto buttavano l’acqua trovando così l’occasione per poter uscire di nuovo, ah le furbizie femminili!

Allora noi baldi giovanotti, imbranati come non mai, ma impenitenti romantici, andavamo a Messa di domenica, nelle feste comandate o alle novene solamente per sbirciare la ragazzina che ci faceva palpitare e se riuscivamo a incrociare il suo sguardo o scambiare qualche battuta, rossi come papaveri, toccavamo il cielo con un dito.

Oggi le ragazze, spesso ragazzine, non si fanno scrupoli di fare audaci avences ai ragazzi, che spesso accettano solo per dovere di maschilità, mandando così miseramnete e definitivamente in pensione quel bellissimo periodo di corteggiamento, che ormai non serve più.

Allora nelle case non c’erano i servizi igienici e si andava fuori sulle montagne a fare i propri irrinunziabili bisogni anche con il cattivo tempo.

Allora le donne per lavare i panni andavano al fiume portando i panni sulla testa con l’immancabile spara, il panno arrotolato per attutirne il peso.

Allora in molte case non c’era nemmeno la corrente elettrica, e in molte c’era la corrente a “furfè”, si pagava cioè solo una quota fissa che dava diritto ad una sola lampadina di cinquanta watt.

A volte l’unica lampadina era nella stanza superiore, e, per portarla nella stanza di sotto, si allungava il filo elettrico e, quando serviva la luce in quest’altra stanza, la si calava attraverso un buco fatto nel pavimento.

Ricordo che a fine mese l’addetto all’energia elettrica, il buon Vincenzo La Penta, abbassava ed alzava la potenza della luce per ricordare la bolletta in scadenza.

Allora, e lo ricordo vagamente, le luminarie delle feste erano alimentate a gas.

Allora le botteghe vendevano tutto al dettaglio: la pasta, lo zucchero, il sale, i biscotti, il tonno, la marmellata, le sigarette, le alici sotto sale.

Ricordo gli ottimi biscottini a forma di animaletti, i nic-nac, dal costo di una lira  ciascuno, che il buon bottegaio, u put(g)ar(o), prendeva dal contenitore di vetro rigorosamente con le mani e li contava attentamente.

Ricordo, ancora, le mentine a forma di cofano, i cufanieddi, pure ad una lira ciascuna, le barrette di cioccolato, i tom, con figurina di giocatori di calcio annessa, e degli ottimi formaggini di cioccolato alla nocciola, i furmaggin(i) r(i) ciucculata a forma triangolare con figurina dei personaggi di Wolt Disney.

Ricordo in particolre la carta azzurra dei maccheroni con la quale incartavamo i libri di scuola.

Allora spesso la spesa si faceva a credito e il commerciante segnava la lista su un quadernino con la copertina nera (a libbretta) e a fine mese si saldava il conto, e forse perciò si dice “e’ scritt(o) goppa u libr(o) niur(o)”, per definire un creditore cronico.

Allora  giocavamo in strada alla settimana o al giro d’Italia spingendo una pallina di quercia, na paddòcciula, lungo un percorso ricavato sui un cumulo di sabbia.

Allora si giocava ancora a nascondino, da noi detto trentun(o), a salterello, da noi detto a cavadducc(io), ad acchiappacompagni, da noi detta campagna, ad una specie di gioco delle bocce fatte con pietre ben levigate, da noi detto a stacce, e a far rorotare un cerchio, da noi detto u nzirr(o), cosiddetto forse per il rumore del ferro sul terreno (zzzzz), aiutati da un piccolo attrezzo di ferro, u paranzirr(o).

Spesso come premio per i giochi si usavano i tappi di metallo delle bottiglie, i rut(u)ciedd(i) o le figurine dei giocatori di calcio.

         Con i tappi si giocava a buttarli vicino al muro, da noi detto a tuzzamur(o) e vinceva chi li faceva ricadere più vicino ad una linea, o a farli entrare in un cerchio, indo u circh(io)

con il minor numero possibile di colpi impressi dal dito pollice e dal medio e le ragazze vi facevano rustiche collane.

Con grande inventiva costruivamo monopattini, i taruocciul(i), con assi di legno e cuscinetti e scorrazzavamo per la polverosa strada.

Allora si andava in campagna, fora, con l’asino, u ciucc(io), considerato come un mezzo di trasporto e trattato con tutte le attenzioni, e col quale la sera si tornava a casa portando l’erba per i conigli o il il mais per le galline.

Con l’asino si andava anche a raccogliere la legna secca nei boschi, a fa a sarc(i)nedda, utile per accendere il fuoco d’inverno.

Gli arredi dell’asino erano: il cofano, u cofan(o), fatto con listerelle larche di legno e si appendevano a coppia ai lati ra varda, il basto e la cesta fatta di salici intrecciati, a guara, che pure si appendevano al basto in coppia.

Allora i bambini nascevano rigorosamente in casa con tutte le carenza igieniche e sanitarie del caso.

Per questo motivo c’era una percentuale abbastanza elevata di morti infantili, infatti spesso si sentiva suonare la campanella per i bambini morti, ri murt(i)ciedd(i).

Fortunatamente questo adesso non succede più grazie all’assistenza ospedaliera.

Allora i neonati si fasciavano o più precisamente si impacchettavano stretti con lunghe fasce di stoffa, i fasciatur(i), e i malcapitati erano costretti a tenere una posizione più innaturale…che brutale sofferenza!…E meno male che i genitori ci volevano bene!

D’inverno le fasce si mettavano ad asciugare sopra delle specie di cupole di legno, asciu(g)atur(i), che a loro volta si metteva sul braciere, a vrasera.

Allora giocavamo a pallone per ore in mezzo alla strada con una palla di pezza o

con un “superflex” magari bucato e ricucito più volte artigianalmente.

Quanti vetri abbiamo rotto con conseguente precipitosa fuga per non essere individuati e per questo quante botte abbiamo preso dai nostri genitori!

Allora a scuola scrivevamo con le penne ad inchiostro col pennino, ricordo il famoso pennino “a cavallotti”, e ricordo che il buon bidello ogni mattina riempiva d’inchiostro i calamai di vetro messi nei buchi dei banchi.

Allora a scuola ci riscaldavamo vicino al braciere, a vrasera, a carbonella.

Allora a scuola indietro ai quaderni c’era stampata la tavola pitagorica, la famosa tabellina che tutti sapevamo perfettamente a memoria.

Ricordo in particolare la libretta, un quaderno con la copertina nera e con le file che delimitavano i righi colorate in rosso e portava alla fine un foglio di carta assorbente per asciugare l’inchiostro dopo aver scritto.

Allora avevamo un gran rispetto e timore per il “signor maestro”, ci alzavamo in piedi quando entrava e lo ricordavamo sempre nelle nostre preghiere serali.

Un affettuoso e commosso ricordo va al mio indimenticabile maestro Emilio Bosco, grande educatore e maestro di vita, e, da buon patriota qual era, ci ha inculcato anche i sani ed incrollabili valori della patria, facendoci cantare ogni giorno inni patriottici.

Arenabianca, Anno scolastico 1957-58, IV elementare, Sig. Maestro Emilio Bosco

 

Portava, sì, la temuta bacchetta ma preferiva non usarla e farsi rispettare ed amare  anzichè farsi temere.

Allora i genitori erano solidali con gli insegnanti e per noi, quando, spesso, le notizie da parte dei docenti non erano proprio lusinghiere sul nostro rendimento scolastico non c’era scampo e alla beffa seguiva sempre il temuto danno, mazzat(e).

Ricordo che un anno, quando frequentavo il Ginnasio, mia madre non mi fece partecipare ad una gita scolastica ad Ischia, cui tenevo molto per i primi approcci sentimentali, perché qualche giorno prima non aveva ricevute notizie esaltanti sul mio rendimento scolastico e, d’altra parte, quando le notizie invece erano buone, non mi faceva mai mancare una gratificazione economica o qualche regalino.

Solo ora riconosco che il suo metodo di educatrice è stato sempre impeccabile ed è servito per il mio rendimento scolastico futuro e per la vita (il bastone e la carota).

Ricordo anche che mio padre, quando frequentavo le elementari, solo dopo che avevo svolto rigorosamente i compiti, per premio mi portava nell’Ufficio postale, dove lavorava, che allora restava aperto tutti i giorni fino alle ore 19:00, e mi faceva mettere i timbri, cosa di cui andavo orgoglioso e anche questo mi è servito per la vita e ancora oggi per me è un gran piacere quando ho la possibilità di mettere qualche timbro.

Allora, già dalla scuola media, si studiava veramente tanto, ma tanto davvero  e non si era mai sicuri di essere promossi a giugno e spesso si era rimandati a settembre.

Oggi, invece, con la complicità della conquistata solidarietà da parte dei genitori, non sempre attenti, i ragazzi pur non studiando affatto sanno di essere sicuramente promossi a giugno anche perché gli esami di riparazione di settembre sono stati aboliti.

Allora credevamo alla befana fino ad otto anni.

Allora si passava molto tempo all’aperto o in strada perché di sicuro non avevamo i video-giochi o internet o il PC.

Ricordo, anche questo con nostalgia, le botte che prendevo quasi ogni sera da mia madre nel periodo in cui asfaltavano la strada, a via nova, in quanto tornavo sempre sporco di bitume, ero diventato quasi un operaio alla giornata.

Allora i contadini spesso contavano le ore con il fischio del treno, in particolare della nostalgica littorina che passava a valle: c’era la littorina delle sette, delle nove e così via.

Allora spesso i nostri genitori andavano a fare la spesa il giovedì al tradizionale mercato di Sala Consilina, si partiva alle sette con la corriera, u pustal(e) r(e) Parasacc(o) che ritornava alle tre del pomeriggio con i pacchi più voluminosi legati sul tettuccio del pulmann.

Allora la gente non si vergognava di andare in giro con i pantaloni con vistosissimi rinacci e riparazioni, cu i pezz(e) n’cul(o): con le toppe sul sedere o con le scarpe con visibili segni di più riparazioni.

Tutto questo non c’è più e tanto di questo spazio genuino e schietto è stato occupato da quella che poi è diventata la vera padrona di casa: la televisione e la gente ha così cominciato ad isolarsi nel proprio guscio davanti a questa finestra sul mondo che non sempre è stata portatrice di buone notizie o di buona educazione.

Ricordo il fascino e l’attesa delle prime televisioni.

Allora ci si riuniva al bar o in qualche casa più fortunata dove avevano avuto la possibilità di comprarla per vedere il “Festival di San Remo” o “Lascia o raddoppia” del compianto Mike Buongiorno, o “Il musichiere” con il bravissimo Mario Riva.

La differenza corre spontanea con i programmi più seguiti di oggi: “Il grande fratello”, “L’isola dei famosi”, “Beatifull”.

Ricordo nel 1960, durante le Olimpiadi di Roma, le prime trasmesse in televisione, la folla di sportivi che si riuniva a casa mia per vedere le imprese sportive.